A cura di Giuseppe Ferrante

Da un carteggio datato 7 marzo
1456 e rintracciato presso il Capitolo della cattedrale di Ascoli, che
consiste in un contratto per la realizzazione di un arredo sacro da montare
all’interno della cattedrale ascolana, si legge che l’opera doveva essere
realizzata con la “preta della montagna Magella secundo lu designo a
lui dato”. E a ricevere questo disegno e l’incarico di eseguire i lavori fu
Nicola da Guardiagrele, citato sempre nello stesso documento come Mastro
Nicola “de argentis de Guardiagrelis”. La pietra della Maiella,
dunque, era molto ricercata già a partire dal '400, soprattutto la variante cosiddetta bianca. Il carteggio di Ascoli ci
conferma, inoltre, come il grande orafo abruzzese Nicola da Guardiagrele fosse
abile anche nella lavorazione della pietra, soprattutto della Maiella, tanto
che in altri documenti Nicola da Guardiagrele é definito “ragionevole maestro
nella scultura”. Questa breve ricostruzione consente di aggiungere un ulteriore
prezioso tassello alla storia della Pietra della Maiella.
La particolare pietra,
infatti, trova sulla Maiella una formidabile coincidenza di espressioni, che
hanno favorito nel corso dei secoli la nascita di un vincolo dai connotati
antropologici unici e difficilmente riscontrabili altrove. Gli scalpellini
della Maiella, con la loro storia, sono stati i testimoni di come il patrimonio
stratificato sul territorio abbia generato un saldo legame tra uomo, ambiente e
identità. Abbateggio, Roccamorice, ma soprattutto San Valentino e
Lettomanoppello sono stati i centri della più fiorente tradizione legata alla
pietra della "Magella". In particolare, a
Lettomanoppello, si è affermata una congrega di scalpellini, lapicidi,
cavatori, che hanno dato vita a delle botteghe e a un circuito economico assai
rilevante.
Un ruolo importante
legato al lavoro degli scalpellini veniva ricoperto dai trasportatori dei massi
cavati. E' in questo modo che nel 1933
il governo arriva a finanziare la strada degli scalpellini di Lettomanoppello
con un contributo diretto per rendere più facile il
trasporto dei blocchi di pietra dalle cave che si trovavano verso la montagna.
Dopo l’apertura della strada fu più agevole il passaggio dei carretti trainati
dai bovini, con la materia prima trasportata anche più velocemente verso le
botteghe presenti nel centro del paese. Un'immagine puntuale della
presenza dei carrettieri impegnati a trasportare la pietra fu restituita da
Gabriele D’Annunzio nella raccolta “Le Novelle della Pescara”, dove lo
scrittore abruzzese mise in risalto il carattere pittoresco e goliardico dei
lettesi.
In riferimento alla lavorazione della
pietra bianca della Maiella è sempre stata enfatizzata la figura dello
scalpellino. Questi artigiani, infatti, erano i referenti principali per una
committenza che spesso era anche abbastanza facoltosa. Dietro il lavoro dei
maestri artigiani, però, c’era tutta una preparazione preliminare che prevedeva
l’impiego di una figura specializzata e forse più importante degli scalpellini
stessi. Si tratta dei cavatori, maestranze dedite all’approvvigionamento della
materia prima da fornire alle botteghe. Cavare la pietra, infatti, era un
lavoro molto impegnativo e pericoloso, ma soprattutto importante per la scelta
della pietra migliore. I cavatori, forti della loro esperienza, erano in grado
di riconoscere le pietre migliori per essere scalpellate. Questo peculiare
esercizio veniva condotto con l’osservazione a vista dei massi, per valutare in
base al colore o alla presenza di venature la predisposizione alla lavorazione.
Il cavatore utilizzava anche dei piccoli arnesi metallici: bastava dare dei
colpi sulla superficie lapidea per capire dal rumore se quella pietra poteva
essere davvero utile allo scalpellino. Questa particolare attitudine dei
cavatori si acquisiva con decenni di esperienza e saper “leggere” o “ascoltare”
la pietra era un segreto che, esattamente come la tecnica legata al lavoro con
lo scalpello, veniva tramandato da padre in figlio.

Visitando le vecchie
cave della pietra della Maiella, si rintracciano i segni della fatica, gli scarti
della produzione che le donne smaltivano con delle ceste di vimini, oppure
alcuni tipi di punteruoli impiegati per spaccare la pietra dalla montagna chiamati pinciotti.