mercoledì 11 settembre 2024

Il San Michele Arcangelo di Lettomanoppello

 A cura di Giuseppe Ferrante

La venerazione tributata a San Michele Arcangelo è tra gli aspetti più interessanti della devozione popolare in territorio lettese: ne è testimonianza il luogo di culto rupestre situato lungo le sponde del torrente Sant’Angelo al confine tra i comuni di Lettomanoppello e Roccamorice. Di recente sono stati accertati alcuni riscontri storiografici già suggeriti in passato dall’indagine archeologica. Il primo è un carteggio del 1324 contenuto nella raccolta delle Rationes Decimanorum nel quale si elencano le chiese presenti a Lettomanoppello e tra queste viene citata la chiesa di Sant'Angelo. Gli altri documenti rintracciati risalgono rispettivamente al 1568 e al 1629. Queste fonti storiche si aggiungono al documento del 1844, e consentono di confermare con certezza la presenza in antico di una chiesa addossata alla grotta dedicata a San Michele. 

Sul pianoro prospiciente la grotta, infatti, sono visibili altre tracce di frequentazione che attestano la presenza umana e la pratica del culto religioso; un muro frammentario è ciò che rimane di una parte di struttura che in origine doveva essere addossata alla grotta. Sono presenti, inoltre, delle lastre che fungevano da pavimento e che oggi sono visibili solo nel recinto rettangolare in pietra: la presenza di resti lapidei e la loro connessione con una chiesa trovano conferma per la grotta di Lettomanoppello in una testimonianza relativa ad una visita pastorale del 1568, la quale riferisce che “il 3 giugno il vescovo giunge alla terra di Lecti e fatte le debite orazioni visita le sottoscritte chiese, videlicet: (…) chiesa di Sant’Angelo alle grotte di montagna – con le porte e vien chiusa (…)”. Le ricognizioni archeologiche, dunque, evidenziano il carattere rurale di questo presidio religioso, ancora percepito come tale nel 1629, quando durante la visita pastorale del vescovo di Chieti viene menzionata insieme alle chiese extra moenia

Un’ultima notizia d’archivio attesta che l’arciprete Rulli, allora parroco del paese, compilò una relazione datata all’ottobre del 1844 e inviata a Monsignor Saggese, vescovo di Chieti: “Vi furono tre ville nel territorio di esso …. La terza finalmente in contrada S. Angelo due miglia distante dal paese verso mezzogiorno, anche del tutto distrutta. Vi si conserva ancora, in mezzo a quelle caverne confinati col fosso di Roccamorice, il sito di una Chiesa, all’incontro della quale esiste la statua di detto Santo, ma tutta rovinata. I più vecchi del paese dicono di aver inteso raccontare dai loro padri, morti 40 – 50 anni addietro, che in ogni anno il popolo nel giorno 8 Maggio, si portava processionalmente in detta Chiesa e l’arciprete vi celebrava la Messa, quindi ai tempi loro furono testimoni di tali funzioni perché vi intervenivano”


giovedì 5 settembre 2024

Quarant'anni fa l'incontro tra la famiglia Aceto e Joseph Beuys: sulla Maiella prende forma Olivestone

 A cura di Giuseppe Ferrante

L’artista tedesco a Lettomanoppello venne ospitato dallo scalpellino Sante Aceto presso le proprie botteghe per dare seguito alle opere contenute nella cosiddetta “Difesa della Natura”. Tra lo scalpellino di Lettomanoppello e l’artista di Dusseldorf nacque un’amicizia sincera e duratura. Grazie ad Olivestone, la pietra della Maiella cavata a Lettomanoppello è stata esposta presso le mostre d’arte più importanti al mondo. Oggi Olivestone è custodita dalla collezione d’arte contemporanea del Kunsthaus di Zurigo. 

Lettomanoppello e Bolognano: due paesi all’incirca limitrofi, che condividono la stessa vocazione per la creatività, per il bello e per l’arte. La comunanza di questi due centri, però, non risulta soltanto dalla diversa risposta offerta con una produzione artistica aggiornata alle tendenze contemporanee, ma anche da fatti, personaggi, luoghi, che hanno unito idealmente i due borghi alla figura di Joseph Beuys, artista di fama internazionale che in Italia, proprio tra Bolognano e Lettomanoppello, ha condotto i suoi ultimi lavori prima di morire in Germania nel 1986. Dalla tradizione degli scalpellini di Lettomanoppello, dal mecenatismo dei coniugi Baroni Durini di Bolognano, e con la consapevolezza del proprio ruolo di “artista sciamano” in grado di visionare il futuro, Beuys ha avvertito il bisogno di comunicare una preghiera laica, un messaggio universale. Una richiesta disperata di attenzione su questioni sulle quali è tuttora urgente uscire dai limiti teorici, per dare seguito a gesti concreti, perentori, privi di tentennamenti. 

Difendere gli spazi naturali, riscoprirsi comunità che sa accogliere, arrestare l’emorragia della memoria che disperde saperi, legami, identità, sono propositi che si rintracciano in Olivestone, scultura in pietra della Maiella che, forse, è l’opera d’arte più famosa realizzata con la pietra cavata a Lettomanoppello. Olivestone consiste in una serie di vasche dalla originaria destinazione d’uso tutt’altro che artistica, appartenenti alla società di un tempo passato che, seppur può essere percepito come arcaico, distante, drammaticamente perduto, non è poi così lontano dal nostro (le vasche risalgono al Settecento). Non si tratta di un tuttotondo, di un alto o basso rilievo, e i manufatti non concedono alcun accenno estetico, decorativo, figurativo. Le vasche impiegate dallo “sciamano” Beuys non sono altro che l’altra faccia di una medaglia che ha per protagonisti gli scalpellini di Lettomanoppello, abili decoratori, ma anche costruttori di suppellettile destinata ai più svariati usi, come ad esempio gli oggetti di ausilio per l’attività agricola. Le vasche impiegate per Olivestone, infatti, appartenevano ad un repertorio di contenitori utilizzabili all’occorrenza o per la pigiatura dell’uva, oppure per la decantazione dell’olio, ed erano di proprietà della famiglia Durini che, sostenitori e mecenati dell’arte beuysiana, furono felici di donarle. 


mercoledì 4 settembre 2024

I culti di Cerere ed Ercole tra età italica e romana sul territorio di Abbateggio

 A cura di Giuseppe Ferrante

Alcuni scavi archeologici condotti nei pressi di una piccola chiesa situata nel bosco di contrada Sant’Agata di Abbateggio, hanno messo in luce la presenza di resti risalenti a periodi più antichi rispetto alla datazione medievale. Ciò ha consentito di ipotizzare la presenza di culti femminili della fertilità nel periodo italico e nell’età romana, mentre solo successivamente è avvenuta la trasformazione in edificio cristiano con l’intitolazione a Sant’Agata. Tra le varie ipotesi sull’attribuzione del luogo di culto la più concreta sembra essere la venerazione in antico della dea Cerere. Si tratta della divinità più adorata dalle sacerdotesse di età preromana e romana soprattutto in Italia. Questa divinità era collegata alla crescita dei cereali e alla loro germinazione, tanto da essere definita la dea dei cereali. I giorni di festa e di venerazione, infatti, venivano chiamati cerealia e celebrati il 19 aprile, cioè quando le spighe sono ormai formate e al loro interno crescono i chicchi. Appare evidente l’auspicio alla prosperità come attestato anche dalla tradizione mitologica: Cerere ha donato la prima spiga agli uomini e ha insegnato loro la coltivazione dei campi. Anche gli italici prestavano rigorosa devozione ai culti legati al mondo agricolo, al ciclo vegetale delle piante e alla custodia della prole umana e animale.

La Cerere italica veniva posta in relazione anche con la sfera ultraterrena e non era insolito che in determinati luoghi, ritenuti magici, vi fosse la credenza che la divinità potesse personificarsi, incentivando cosi la costruzione di un tempio o luogo di culto. È nel quadro appena descritto che si può inserire la presenza del piccolo edificio, un tempo dedicato a Cerere, che si trova in località Sant’Agata. L’origine assai remota dei riti propiziatori rimanda ad un passato complesso, nel quale le popolazioni italiche organizzavano tutte le attività agricole e pastorali rispettando un rigoroso cerimoniale. Successivamente, con la romanizzazione, alcuni aspetti religiosi vengono mantenuti e inglobati dalla cultura romana attraverso l’istituzione di una religione di stato che aveva funzione regolatrice della vita sociale e politica. Il ciclo delle messi è stato inquadrato dai romani all’interno di riti di fecondità codificati da rituali osservati con estrema devozione nell’intenzione di propiziare i favori divini. Il farro era la base dell’alimentazione dei romani: “Pulte non pane vixisse longo tempore Romanos”, come afferma Plinio nella Naturalis Historia. Gli stessi soldati romani mangiavano prodotti derivati dal farro e la paura che le stagioni potessero andar male e compromettere i raccolti veniva esorcizzata con la religione, e soprattutto con il culto cererio. Sempre dalla Naturalis Historia apprendiamo che i riti dell’aratura e della mietitura furono istituiti al tempo del re Numa Pompilio, mentre la celebrazione della purificazione chiamata fornicalia è testimoniata da Ovidio all’interno dei festeggiamenti della torrefazione del farro che avveniva entro il 17 febbraio. Tra le fonti letterarie è significativo quanto riporta Catone nel De Agri Coltura che mette in relazione il farro con la dea Cerere. Catone, infatti, scrive che durante la mietitura venivano realizzate delle focacce di farina di farro da offrire a Cerere. Alla luce di quanto fin qui riportato è possibile affermare che la presenza di un luogo di culto dedicato alla divinità femminile Cerere è una straordinaria prova storica che mette in relazione la coltivazione del farro con il territorio di Abbateggio a partire da tempi antichissimi. In località Colle di Gotte di Abbateggio nel 2008, inoltre, sono stati rinvenuti i resti di un tempietto dedicato ad Ercole. Durante i lavori di aratura nei campi di proprietà del signor Giacinto Scipione sono emersi in maniera fortuita una statuina bronzea di Ercole e frammenti lapidei modanati. Successivamente la soprintendenza archeologica dell’Abruzzo ha avviato una campagna di scavo che ha permesso di portare alla luce strutture pertinenti al luogo di culto. In particolare sono stati ritrovati la parte inferiore di un busto di statua in calcare con una testina di minori dimensioni fra le gambe, oltre ad una mano con sei dita, che consente di riconoscere nella figura il dio Ercole.

La presenza di questa divinità è attestata in diverse zone delle colline della Maiella in quanto le abitazioni sparse, sia in età italica che nel successivo periodo romano, si sviluppavano attorno a dei santuari rurali. La figura di Ercole veniva rappresentata di solito nelle sembianze di un giovane dal fisico robusto armato di bastone e intento a colpire, e veniva associata dagli italici alla forza fisica e al valore militare. Ma il ruolo attribuito a questa divinità non è soltanto quella dell’eroe virile, perché all’interno di una diffusione capillare sul territorio abruzzese sono diversi i connotati religiosi che gli vengono attribuiti. Spesso era associato alla protezione delle sorgenti, dei commerci, delle greggi e dei viaggiatori. Come testimonia il considerevole numero di statuine votive ritrovate, la venerazione per Ercole era molto sentita e il suo culto continuò ad essere praticato anche presso i romani. Tale successo può essere rintracciato in autori antichi come Diodoro e Macrobio ,che ambientano in Italia le gesta eroiche di Ercole. Anche sulla Maiella questa divinità è stata associata alla protezione delle sorgenti, delle fonti e delle greggi, e ciò ha permesso di affermare che questo dio veniva invocato con una precisa connotazione agricolo-pastorale, con l’intento di incrementare e proteggere le greggi e la transumanza. La presenza a Colle di Gotte del luogo di culto dedicato ad Ercole testimonia come anche la pratica dell’allevamento esprimesse un richiamo alla fecondità attraverso rituali legati al territorio. Le vie della transumanza, le sorgenti e le fonti venivano sacralizzate con l’intenzione di ottenere protezione e prosperità, e proprio ad Abbateggio ciò trova una straordinaria conferma nella presenza sullo stesso territorio del luogo di culto dedicato a Cerere e dei resti del tempietto di Ercole. Sembra cioè che si verifichi, usando le parole del Prosdocimi, “l’inserimento di Ercole nel ciclo encorio di Cerere”. Non a caso come rilevato da R. Tuteri, Ercole è abbinato a Cerere nelle festività romane del solstizio d’inverno e la tavola di Agnone lo definisce “cerio”.